della professoressa Patrizia vezzosi
«Come stai?»
Domanda quotidiana, posta spesso automaticamente.
Domanda retorica.
Domanda inutile, anzi spesso fatta istintivamente e forse sperando che il nostro
interlocutore risponda con un banalissimo: «Bene, grazie», per poi scappare via
fagocitati da impegni frenetici e irrinunciabili. Che se poi qualcuno per errore,
sbagliando il copione, dovesse rispondere: «Insomma…» dovremmo fermarci,
chiedere qualcosa anche solo per educazione, approfondire un minimo. Ma noi non
abbiamo tempo, dobbiamo correre, correre.
«Come stai?», domanda spesso posta senza guardare l’altro negli occhi o forse senza
che nessuno dei due alzi lo sguardo dallo smartphone. Ecco gli occhi, lo sguardo!
Probabilmente è proprio quello che temiamo perché fermarsi e guardarsi veramente
negli occhi, nel volto ci può far sentire vulnerabili, così vediamo, ma non guardiamo,
non osserviamo, compulsivamente passiamo oltre.
Forse però proprio quello sguardo sincero basterebbe a farci stare meglio e
renderebbe davvero banale la domanda «Come stai?». Perché quello sguardo ci
farebbe sentire riconosciuti, ci “renderemmo conto” l’uno dell’altro, non saremmo
più fantasmi invisibili, farebbe bene a entrambi perché darebbe senso a entrambi. E
avere un senso, trovare un senso è quello cui tutti aspiriamo e che desideriamo per
stare meglio.
Questo tuttavia significherebbe frenare, fermarci, prenderci entrambi una pausa.
D’altra parte metterci in pausa non dovrebbe essere uno sforzo eccessivo, se
pensiamo che siamo tutti abituati a metterci in posa per fare continuamente degli
scatti, dei selfie davanti a uno schermo. Etimologicamente infatti la parola “posa”
deriva proprio da pausa, quindi si tratta solo di mettersi in posa e guardare
veramente chi ci sta di fronte.
A questo punto la domanda «Come stai?» diventa una domanda fondamentale.
Domanda potente.
Domanda imprescindibile.